Regionali: note fuori dal coro
I commenti postelettorali si limitano a fotografare il peso relativo di partiti sempre meno votati e socialmente più irrilevanti, ma la vera lezione è che avanzano cacicchi locali capaci di raggruppare dietro di sé clientele e lobby del territorio, pronte a ricollocarsi politicamente in base alle convenienze del momento. A sinistra invece il tema del ‘blocco sociale’ continua a essere rimosso.
A una decina di giorni dall’ultima tornata elettorale è più semplice trarre conclusioni meno affrettate di quelle formulate a caldo. Ha vinto Zingaretti? Hanno vinto i Cinque Stelle? Si è rafforzato il Governo? Come sempre dopo il voto si fa fatica a trovare gli sconfitti. A noi sembra che — pur in un quadro di fragilità complessiva del sistema politico — gli unici vincitori di questo turno elettorale siano i cacicchi locali di centrodestra e di centrosinistra premiati dalle urne: in Veneto e in Campania Zaia e De Luca furoreggiano; in Liguria Toti stacca di oltre 17 punti l’unico candidato comune PD-M5S e il centrodestra passa dal 39,3% al 56,5% e da 212.00 a 354.000 voti, un risultato analogo a quello del sindaco uscente di Venezia, Brugnaro, che 5 anni fa aveva vinto al ballottaggio e oggi vince al primo turno passando da 35.000 a 67.000 voti.
Tornando alle regionali anche Giani ed Emiliano, che pure in Toscana e in Puglia vincono di soli 8 punti e rimangono sotto il 50%, possono comunque intestarsi il merito di aver salvato il PD (e la testa di Zingaretti). Ma, come mostra il grafico di Youtrend, in Toscana l’unico merito del PD è aver perso meno degli altri (unica eccezione FdI) e a livello nazionale oggi la tenuta dell’attuale gruppo dirigente poggia su personaggi di inaffidabilità cosmica come Bonaccini, De Luca, Emiliano e Giani. Il M5S vince il premio di consolazione del referendum, ma alle regionali è ridotto al 7,6%, la Lega al 13,8% (col modello Zaia sugli scudi e Giorgetti che dichiara al Corriere: ‘Se Matteo vuole governare deve incontrare Draghi e chiedere l’iscrizione al PPE’, Corriere230920), mentre FdI è in crescita e Forza Italia si conferma un partito intorno al 5% (e con un conflitto interno durissimo). Quindi nel centrodestra diminuisce il peso di Salvini, vittima dei suoi stessi proclami donchisciotteschi sul 6–0 (solo che qui Sancho Panza si ribella).
Per quanto riguarda il Governo sostenere che si è rafforzato quando i suoi principali azionisti hanno ottenuto questi risultati e l’unico candidato unitario che hanno espresso (Sansa) ha fatto peggio di tutti è quanto meno azzardato, anzi, è verosimile che se anche nelle altre regioni il PD si fosse alleato col M5S probabilmente avrebbe perso. D’altro canto su Conte pochi giorni dopo il voto si è abbattuta la scoppola di Bruxelles: prima ha dovuto pagare la prima rata del conto del Recovery Fund annunciando la cancellazione di quota 100 (giusto per restituire un po’ di ossigeno a Salvini…), poi è arrivata la beffa dei fondi europei, l’aurea medaglia che nei mesi scorsi si era appuntata sul doppiopetto, che pare arriveranno con un imprecisato ritardo. Dunque il voto sancisce che il Governo andrà avanti, ma andrà avanti vivacchiando e il privilegio di dover gestire i soldi europei, che dopo il voto è valso a Conte i toni più morbidi del presidente di Confindustria, da privilegio rischia di trasformarsi in un cappio il cui capo sta saldamente nelle mani di Bruxelles. E infine, se già prima delle elezioni Zaia e Bonaccini dettavano la linea al Governo sulla tassa sulla plastica e la riapertura al pubblico degli stadi, cosa possiamo aspettarci ora che il primo è quasi riuscito a far meglio di Lukashenko? Insomma nei prossimi mesi il presidente del consiglio si troverà ad affrontare manovra finanziaria, Recovery Plan e Covid-19 schiacciato politicamente tra il premier olandese, Visegrad e il la giunta veneta e pressato socialmente dal padronato e dalle Borse.
Il blocco sociale
Ferruccio Sansa tre giorni dopo la sconfitta ha pubblicato su Facebook il link a un’inchiesta de L’Espresso di due anni fa e un’ANSA del 23 settembre chiosando: ‘Comincia il lavoro di opposizione: con che soldi Toti si è pagato la campagna elettorale?’ Così facendo il candidato PD-M5S dimostra di aver perso senza neanche riuscire a capire perché. Infatti sia il settimanale sia l’agenzia stampa certificano che gli sponsor di Toti sono in larga misura ex sodali del suo principale alleato. Se Sansa, oltre che postare quei due articoli su FB li avesse analizzati un po’ più a fondo, avrebbe capito che Toti ha vinto perché nei cinque anni passati ha saputo creare e consolidare un rapporto con alcuni centri di potere economico, che prima di lui erano legati tradizionalmente al PDS-DS-PD, e nel frattempo si è astenuto dall’urtare l’elettorato al punto da spingerlo a votargli contro (come ha fatto il centrosinistra negli ultimi 5 anni). Guadagnandosi il sostegno, ad esempio, di terminalisti e armatori del porto di Genova, autotrasportatori e costruttori, Toti è riuscito a coagulare un proprio blocco sociale di riferimento, coerente col suo profilo politico di centrodestra moderato, soffiandolo al centrosinistra. Non è un caso che buona parte dei soci di Change, il suo comitato elettorale, provenga dai ranghi dell’associazione Maestrale dell’ex presidente della regione ed ex ministro dei trasporti di Prodi Claudio Burlando e il motto di Change — il vento è cambiato’ — sembra quasi una citazione beffarda. Allo stesso tempo Toti ha mantenuto un profilo nazionale e non a caso subito dopo le elezioni ha attaccato Salvini, candidandosi a giocare un ruolo nella crisi del centrodestra e dell’area moderata (con la successione di Berlusconi sempre più vicina e Renzi uscito male anche lui dalle urne).
Sansa invece non è stato capace né di parlare ai padroni e padroncini né ai lavoratori liguri e ha deciso ancora una volta di affidarsi all’araba fenice della politica italiana, quella ‘società civile’ che tutti chiamano in soccorso della causa progressista e che non si capisce bene cosa sia, ma di cui per certo si sa che elettoralmente conta poco e socialmente anche meno. Da questo punto di vista la Liguria riflette, adattandola alla sua peculiarità di ‘meridione del Nord’ e di regione con un rapporto 5 a 1 tra over 65 e under 14, una tendenza di fondo più generale, segnata da una crescente caratterizzazione sociale dell’astensionismo, sempre più forte nelle periferie e nei quartieri popolari e tra i giovani (con la breve parentesi del M5S, che una parte di quell’astensione era riuscito a recuperarla), e anche dei candidati, che, anche nel centrosinistra sono sempre più spesso professionisti, piccoli imprenditori, ceto medio intellettuale. Nelle precedenti elezioni regionali svoltesi in Emilia-Romagna e in Calabria a gennaio, quando il non voto non era parzialmente imputabile al timore del contagio, secondo uno studio SWG a fronte di un astensione rispettivamente del 33% e del 66% in Emilia-Romagna lo stesso dato sale al 41,5% tra i giovani tra i 18 e i 35 anni e al 48,2% nei ceti popolari e in Calabria al 60,8% e al 51,9% nelle stesse due categorie.
Il cretinismo elettorale della sinistra
La sinistra politica e sociale ancora una volta è rimasta vittima del miraggio di poter compensare la propria irrilevanza sociale attraverso la scorciatoia delle elezioni. Come era successo in Emilia a gennaio partiti più comunisti degli altri, sinistre civiche ed ecologiste, amici di Putin e fan di Greta Thunberg si sono contesi le briciole cadute dal tavolo delle regionali, mentre hanno condiviso uniti la prevedibile batosta del no al referendum. Per un altro verso i sindacati, confederali e di base, da una parte non sono stati capaci di utilizzare la campagna elettorale per incalzare i candidati sui temi del lavoro, della sanità, della scuola e dei servizi pubblici, dall’altra hanno ‘simpatizzato’ per candidati perdenti oppure per candidati vittoriosi ma quanto mai lontani dal mondo del lavoro.
Le imprese, al contrario, hanno usato la campagna elettorale per mettere ulteriormente alle corde il mondo del lavoro e il sindacato e tenere in scacco il Governo. Col fuoco di sbarramento di Confindustria che chiede di legare il salario alla produttività, dice no al salario minimo e pretende di pagare gli aumenti contrattuali coi buoni-spesa; che reclama la cancellazione dei sussidi ai lavoratori ma vuole più sussidi per sé; che propone la tassazione diretta del lavoro dipendente e preme affinché il Governo revochi integralmente il blocco dei licenziamenti, le imprese del food delivery, che nei mesi del lockdown hanno fatto soldi a palate, quattro giorni prima del voto hanno firmato un contratto separato con l’UGL che porta a casa autonomia del rapporto di lavoro dei rider e cottimo, approfittando della divisione tra PD e M5S e stabilendo un precedente che domani potrà essere sfruttato da tutte le aziende italiane. O si riparte da qui, cioè dall’idea che i risultati elettorali non fanno altro che riflettere i rapporti di forza sociali e che quindi il vero nodo riguarda la capacità di modificare quei rapporti di forza là dove essi si manifestano e al contempo dare rappresentanza politica al mondo del lavoro oppure il regno dei cacicchi è destinato a durare a lungo.
Questa analisi è stata pubblicata nella newsletter di PuntoCritico.info del 2 ottobre.