Riflessioni politiche sulla pandemia
E’ difficile analizzare dall’interno un fenomeno complesso quando è ancora in pieno svolgimento. Ma a oltre due mesi dal suo arrivo ci pare che alcuni aspetti di fondo inerenti l’impatto del COVID-19 sul capitalismo europeo affiorino in modo abbastanza chiaro. Per questa ragione proviamo a fissare alcuni punti utili ad avviare una discussione a sinistra.
1. Non siamo tutti sulla stessa barca: c’è chi galleggia e chi affonda
Un virus sta scuotendo alle fondamenta il capitalismo globale, minaccia di mettere in ginocchio le ‘grandi potenze’ e ci ricorda la vera natura dei rapporti di potere nella nostra società, evidenziando la distanza tra chi è considerato un semplice fattore produttivo, tenuto a casa oppure costretto a lavorare (e a rischiare la vita) in base a esigenze di mercato e chi invece beneficia del lavoro (o dell’inattività) altrui e si vede garantite protezioni e prestazioni che ai primi garantite non sono. Ci dicono che siamo tutti sulla stessa barca, ma in realtà c’è chi galleggia e chi affonda.
2. Vulnerabilità del capitalismo globale
La pandemia di coronavirus rappresenta forse la più ampia emergenza nella storia dell’umanità e la più allargata crisi nella storia del capitalismo, una crisi che mette a nudo la vulnerabilità di quello che alcuni hanno descritto come il migliore, altri come l’unico mondo possibile. Mai, neppure all’epoca dei due conflitti mondiali, l’intera popolazione del pianeta si era trovata esposta in modo così concentrato a un pericolo tanto subdolo e letale. Sistemi sanitari, catene di fornitura globali, trattati internazionali saltano l’uno dopo l’altro come birilli e siamo solo all’inizio.
3. Il virus demistifica l’ipocrisia del ‘libero mercato’
Il virus smaschera l’ipocrisia della dottrina economica liberale, mettendo in luce la stretta relazione tra l’impatto della pandemia e una struttura economica e sociale modellata secondo i dogmi del ‘libero mercato’. Da quando il COVID-19 ha raggiunto l’Europa ci si è divisi tra chi sosteneva che fosse ‘poco più di un’influenza’ e chi invece lo dipingeva come la peste. La realtà è che non contano tanto contagiosità e letalità in sé quanto piuttosto il modo in cui l’aggressività del virus si combina con la risposta sociale a esso. Minimizzare la gravità del virus è funzionale agli interessi del mercato, enfatizzarla serve a sminuire gli errori e l’impreparazione dell’uomo (per i media anche a fare audience). L’inadeguatezza di una sanità pubblica reduce da 30 anni di aziendalizzazione e riduzione delle risorse amplifica l’impatto del virus, ma non è imputabile a esso.
4. Capitalismo e natura
La pandemia solleva anche la questione del rapporto tra capitalismo e natura. I virus sono agenti naturali e in genere provocano le epidemie ‘saltando’ da una specie animale all’uomo perché l’uomo, anche a causa del sovrappopolamento, penetra in ‘ecozone’ un tempo isolate e le specie animali che le popolano vengono integrate nell’economia degli uomini, il cui funzionamento può amplificare ampiezza e rapidità del contagio. Se la teoria economica dominante considera la salute (e la salubrità dell’ambiente) un ostacolo alla ‘libertà d’impresa’, allora quella possibilità diventa una certezza.
5. L’inappropriata metafora della guerra
La metafora della pandemia come guerra è un artificio retorico tanto suggestivo quanto inappropriato. La guerra infatti è, soprattutto per il vincitore, la realizzazione perfetta del keynesismo: distruzione di merci, capitali e capacità produttiva in eccesso in periferia e picchi di produzione al centro; debito pubblico che si trasforma in profitti e trattati di pace che lasciano macerie, domanda di beni e servizi per la ricostruzione e di capitali da investirvi. Insomma una distruzione creatrice. L’epidemia, al contrario, paralizza l’economia senza distruggere merci e capacità produttiva. I magazzini restano pieni, ma i potenziali acquirenti sono sommersi dai debiti.
6. A chi serve l’unità nazionale
La metafora della guerra riflette un’esigenza propagandistica: l’appello all’unità nazionale in cui conflitti e differenze vengono abbandonati di fronte al nemico comune. La classe dirigente riscopre la propria interna solidarietà anche per coprire sotto il vessillo nazionale la responsabilità condivisa dello smantellamento della sanità pubblica e dell’improvvisazione con cui ha affrontato il virus, per far dimenticare, ad esempio, che quando bisognava prepararsi all’epidemia la politica pensava alle elezioni. E la richiesta di unità è inversamente proporzionale alla disunità tra chi rischia la vita e chi invece osserva comodamente dalla plancia di comando.
7. La riduzione della democrazia
L’appello all’unità serve anche a stimolare una disciplinata accettazione di inedite limitazioni delle libertà democratiche, assunte temporaneamente in nome della sicurezza, ma non per questo meno inquietanti. Gli alfieri della democrazia liberale elogiano Xi Jinping e il Potere dà a intendere che se il virus miete vittime a migliaia non è perché gli ospedali sono dei colabrodo, ma perché troppi di noi non applicano con sufficiente zelo le sue direttive. Non è il fascismo, certo, ma il rischio che la riduzione dei diritti democratici già in atto si accentui è concreto e assume una forma più subdola di quella evocata dalle smargiassate di Salvini. Chi ci dice, ad esempio, che tra qualche mese, quando potremo uscire di casa ma il virus non sarà ancora completamente debellato, scioperi e cortei non vengano vietati per ‘ragioni sanitarie’?
8. Il virus rafforzerà la Cina?
La Cina, che inizialmente sembrava la principale vittima del coronavirus, fino a veder compromessa la propria leadership economica e far parlare i nostalgici di Mao e di baffone di un presunto attacco batteriologico USA a Wuhan, in realtà dalla crisi potrebbe uscire rafforzata. Se i risultati della terapia d’urto applicata a Wuhan saranno confermati e non vi sarà un contagio ‘di ritorno’, vorrà dire che Pechino è riuscita sconfiggere il virus rapidamente: un successo, almeno sul piano internazionale (su quello interno si vedrà), che consentirebbe a Pechino di approfittare di essere stata la prima a superare la minaccia, correndo addirittura in soccorso di altri paesi. Mentre il suo principale rivale geopolitico, gli USA, si è fatto cogliere totalmente impreparato.
9. Il virus travolge la disUnione Europea
Il processo di unificazione europea è travolto dalla pandemia. Il fatto che per il capitalismo del vecchio continente l’unificazione sia la scelta più logica e dunque obiettivamente necessaria per affrontare la competizione economica con USA e Cina, infatti, di per sé non garantisce che le borghesie nazionali dei paesi-membri siano in grado di portarla a compimento. E così i sedicenti europeisti, dopo aver battuto nelle urne i ‘sovranisti’, oggi sono costretti dal virus a realizzarne il programma: fine del patto di stabilità, sospensione di Schengen, no agli Eurobond, mascherine ferme alla dogana. Mentre i ‘sovranisti’ si ritrovano scippati dei loro slogan e divisi, ancora una volta, a difesa delle rispettive patrie. L’annosa polemica tra chi nell’UE vede la rovina e chi, invece, un’ancora di salvezza lascia il posto a un’unica certezza: mentre le classi dirigenti europee giocavano a scaricabarile i lavoratori europei sono stati gli unici a lottare tutti insieme contro la pandemia. Purtroppo senza un adeguato sostegno della Confederazione Europea dei Sindacati che o latita o addirittura lascia che i sindacati nazionali seguano a ruota le proprie classi dirigenti.
10. Gli imprenditori ‘ridiventano’ padroni
L’epidemia spazza via anche ogni residua retorica sulla ‘responsabilità sociale delle imprese’, così come l’idea che la lotta di classe sia un retaggio del ‘900. Commercianti e industriali che premono affinché i governi non blocchino i loro affari, aziende e organizzazioni di categoria che in tutta Europa cercano di approfittare della pandemia per togliere diritti e salario: sotto il velo retorico, squarciato dal virus, di aziende dipinte come famiglie, in cui gli ‘imprenditori’ investono generosamente i loro averi per il bene dei propri ‘collaboratori’, affiora la cruda realtà dei ‘padroni’ che estraggono con ogni mezzo profitti dalla ‘forza-lavoro’ dei dipendenti.
11. Lo Stato non siamo noi
La subalternità dimostrata dagli Stati nei confronti del potere economico durante la crisi smonta anche la retorica de ‘lo Stato siamo noi’. ‘Lo Stato fa schifo’ ha urlato a due agenti di polizia una famiglia barese, lui piccolo commerciante costretto a chiudere, la moglie, titolare di una pensione che non le era stata pagata nei termini previsti, colpevoli di aver preso a calci la porta di una banca dopo aver tentato invano di prelevare 50 euro per comprare da mangiare. Lo Stato che quando c’è da colpire gli interessi delle lobby balbetta e quando c’è da soccorrerle è pronto ad aprire i cordoni della borsa (anche in anni di austerità), non esita a lasciare milioni di lavoratori, disoccupati, sottoproletari e piccoli commercianti a casa senza reddito o in cassa integrazione a 900 euro al mese. La definizione di Marx dello Stato come il ‘comitato d’affari che gestisce gli affari comuni della borghesia’ per milioni di europei è diventata la più efficace sintesi di un’esperienza concreta: ‘Io difendo la mia salute e il mio salario; il mio padrone difende i suoi profitti; lo Stato sta dalla sua parte’.
12. Il virus evidenzia e amplifica gli squilibri italiani
L’Italia è stato il primo paese europeo investito in pieno dalla pandemia, che ne ha evidenziato e in qualche misura amplificato i principali fattori di squilibrio: la frammentazione del tessuto produttivo e la conseguente ipertrofia della piccola-media impresa e, sul piano sociale, della piccola borghesia; la forte quota di economia sommersa (il doppio di Germania e Francia); l’inefficienza dell’apparato statale. In questo quadro a pagare la crisi saranno soprattutto (pur in modo non omogeneo) il lavoro dipendente, in particolare ampi settori di precariato e di finto lavoro autonomo o cooperativo; ancor più gli strati inferiori cosiddetta ‘classe media’, già spremuti dalla recessione di 10 anni fa, e un sottoproletariato diffuso nelle pieghe dell’economia sommersa, in particolare al sud, questi ultimi entrambi privi di ammortizzatori sociali. Le misure del Governo hanno spostato parte dei consumi dal piccolo commercio alla grande distribuzione e molte piccole attività potrebbero non sopravvivere a causa delle perdite e dei debiti accumulati, ma anche perché i consumi potrebbero mantenersi a lungo sotto la soglia precrisi. L’episodio di Bari, così come le baruffe verificatesi in alcuni supermercati al sud sono i primi sintomi di un fenomeno da non sottovalutare.
13. Non tornerà tutto come prima
Appare poco probabile che tra qualche mese tutto torni come prima. E’ difficile fare previsioni, ma è necessario ragionare sugli scenari che a oggi appaiono più verosimili:
- l’uscita dall’emergenza potrà essere diluita in un tempo abbastanza lungo e avvenire sotto la minaccia di un contagio di ritorno, almeno fino quando non avremo un vaccino. In ogni caso dovremo inserire le epidemie nel novero dei potenziali pericoli, con alluvioni, terremoti e crisi finanziarie.
- alla crisi sanitaria seguirà quella economica e sociale, ma una nuova ondata di recessione era già annunciata da tempo e la pandemia non farà che aggravarla. Non è una distinzione astratta: imputare integralmente la recessione al virus, come fa Mario Draghi, significa assolvere chi dopo la crisi del 2008 ha continuato a seguire le stesse ricette che l’avevano causata.
- il clima da unità nazionale (coi relativi strascichi autoritari) si prolungherà anche dopo la fine dell’epidemia, perché serve a contenere la rabbia sociale e a coprire le pesanti responsabilità di una classe dirigente che per decenni ha subordinato la salute al profitto.
- le misure di distanziamento sociale hanno provocato un’ondata di digitalizzazione di massa che lascerà il segno e che porta in sé i germi di una società gestita ‘in remoto’, in cui potenzialmente ciascuno può vivere e lavorare a casa propria e ridurre al minimo gli spostamenti. Ciò contiene aspetti positivi, ma anche potenziali insidie (si pensi al cosiddetto smart working).
- i lavoratori usciranno dalla crisi con la consapevolezza e la forza che deriva dall’aver dimostrato che la società ha retto all’epidemia soprattutto grazie a loro, al loro sacrificio e alle loro vittime.
- la pandemia ha evidenziato quanto siano labili i confini tra i paesi e come per prevenire o affrontare i grandi problemi serva una visione mondiale e un coordinamento operativo quanto meno continentale, ma allo stesso tempo ha mostrato a milioni di persone l’incapacità delle classi dirigenti e delle borghesie europee, del capitalismo e del libero mercato, di realizzare quegli obiettivi.
- la percezione diffusa che ci vuole più Stato e la cancellazione temporanea del patto di stabilità di per sé rappresentano un’occasione per rimettere al centro del dibattito politico il tema della giustizia sociale, ma solo se ci disfiamo dell’illusione che lo Stato e le istituzioni siano un soggetto socialmente neutro, un arbitro imparziale dello scontro tra opposti interessi materiali. Per averne conferma basterà porre un semplice interrogativo. I governi hanno già annunciato pacchetti da centinaia di miliardi per uscire dalla crisi: da quali tasche verranno prelevati quei soldi? Vogliamo partire da qui?